Le misure attualmente messe in atto dal Governo italiano per contrastare la diffusione del Coronavirus hanno radicalmente cambiato la vita di molti cittadini, rendendo sempre più fondamentale l’utilizzo del web per accedere a servizi che, fino a pochi giorni fa, davamo per scontati in quanto potevano essere espletati recandosi direttamente presso il luogo fisico (pensiamo alle lezioni online per milioni di studenti, alla spesa con ordine effettuato sul sito web del supermercato con servizio di consegna a domicilio, ma in particolare pensiamo al cosiddetto “smart working”).
Proprio su quest’ultimo termine si deve porre fortemente l’accento, in quanto si tratta di un nuovo modo di pensare l’attività lavorativa senza doverla confinare all’interno del perimetro aziendale.
Attualmente molte attività impossibilitate a continuare la loro normale routine quotidiana, poiché ritenute non essenziali, hanno la possibilità di operare solo attraverso la modalità smart working; il vero problema è rappresentato dal fatto che nel nostro paese non sono molte le imprese che sono riuscite ad implementare questo modo di lavorare, trovandosi completamente impreparate all’emergenza sanitaria e all’impossibilità di poter operare a stretto contatto, proprio a causa del rischio di contagio.
Quanto è ancora lontana l’Italia produttiva da un modello efficiente di smart working? Quali sono le principali barriere all’introduzione di questo modo così differente di lavorare? Ne parliamo brevemente con Carlo Vivarelli, esperto nel campo della consulenza per imprese, ma anche per enti ed organizzazioni, che su questo aspetto si è trovato spesso a dover dibattere con numerosi clienti.
Con l’esplosione della problematica Coronavirus e il ritrovarsi da un giorno all’altro a dover ricorrere all’uso dello smart working, come ritiene si possa definire la situazione attuale in Italia?
Attualmente ci sono una serie di attività ritenute essenziali, perché legate al settore sanitario ed alimentare che possono continuare a lavorare con una certa regolarità, pur nel rispetto delle regole previste dall’ultimo Dpcm.
Il problema resta per le centinaia di imprese che non hanno questa sorta di “privilegio” e si ritrovano costrette ad utilizzare metodi alternativi per proseguire la loro attività; purtroppo qui si andranno a creare due categorie delineate, le imprese che sono in grado di sfruttare lo smart working (perché già implementato non da questi giorni, ma anche dal passato) e che possono continuare a rimanere operative, e quelle che non ne sono in grado e che sono destinate allo stop forzato delle loro attività.
Ovviamente la possibilità di lavorare da remoto è fondamentale ma è necessario che l’impresa abbia stabilito in precedenza un protocollo comportamentale condiviso a tutti i livelli.
Cosa intendo con questa affermazione? Che attraverso un piano dettagliato che comprende l’insegnamento nell’utilizzo delle tecnologie da utilizzare online, oltre che l’interazione e la comunicazione effettuata attraverso questi strumenti, siamo in grado di poter gestire questa fase critica, consentendo all’impresa di continuare ad essere operativa.
Che idea si è fatto dell’uso dello smart working in Italia e come potrebbe evolversi alla luce degli ultimi avvenimenti?
Lo smart working non è una pratica inventata in questi giorni, già molte imprese di tutto il Mondo consentono da anni ai propri dipendenti di poter lavorare dematerializzando il luogo di lavoro e basandosi più sulla valutazione dei risultati che sulle ore trascorse rinchiusi dentro un ufficio.
L’idea che mi sono fatto è che in Italia questo modo di lavorare non è stato considerato al giusto livello di importanza, soprattutto perché non se ne è mai visto una reale necessità; ma come tutti sappiamo un bisogno può presentarsi in qualunque momento, è sufficiente che si crei una situazione emergenziale (per l’appunto lo scoppio di una pandemia a livello globale) che renda necessaria una risposta rapida ed efficace… e purtroppo solo le imprese caratterizzate da un alto livello di flessibilità e propensione al cambiamento sono in grado di dare questo tipo di risposta.
E’ capitato spesso con il mio lavoro di ritrovarmi in situazioni dove le imprese clienti si trovavano in situazioni di profonda crisi soprattutto perché non erano state in grado fin dal principio, di comprendere l’importanza di implementare una cultura del cambiamento che pervadesse l’intera organizzazione a tutti i suoi livelli, generando difficoltà nella modernizzazione (implementando un piano di digital transformation aziendale).
Da cosa deriva, secondo lei, questa difficoltà ad implementare i cambiamenti nella cultura di molte imprese?
Siamo notoriamente un paese diffidente e abbastanza tradizionalista, molti dei nostri genitori sono ancorati alla visione del posto fisso, del lavoro in ufficio con orari stabiliti, figuriamoci in molte imprese che sono sul mercato da anni e che ritengono di aver trovato la loro stabilità e di non avere necessità di cambiare il loro status quo.
Solitamente le principali problematiche che non consentono l’introduzione dello smart working in Italia sono:
- per le piccole e medie imprese soprattutto la difficoltà di applicare questo metodo alla propria realtà, oltre alla resistenza del top management
- per le grandi imprese sussiste anche il timore per la sicurezza dei loro dati sensibili, ma anche la scarsità di digitalizzazione delle imprese stesse, pecca gravissima per chi vuole operare in un contesto dinamico e globalizzato come il nostro
Eppure, dove lo smart working viene implementato in modo serio, il sistema riesce a funzionare senza alcun problema. Serve una cultura del lavoro smart (purtroppo ci troviamo in fondo alla classifica europea), dove tutti sanno quale è il proprio compito e lavorano per raggiungere il singolo obiettivo… la somma degli obiettivi raggiunti consente di conseguire quello principale, ossia la piena operatività dell’impresa.
Noi stessi, che siamo una realtà composta da un network di 22 professionisti sparsi su gran parte del territorio nazionale, operiamo in smart working per l’80% circa del nostro tempo e del nostro lavoro complessivo.
Diversamente non riusciremmo ad erogare in modo puntuale ed efficiente i nostri servizi di consulenza e non riusciremmo a creare tavoli di lavoro partecipati dai professionisti con i più alti profili di competenza senza generare dei costi eccessivi a carico dei nostri committenti.
Lo smart working consente di velocizzare le tempistiche, soprattutto riduce a 0 i tempi di spostamento da casa al luogo di lavoro, si riesce addirittura a produrre di più nel momento in cui ci si trova in un contesto tranquillo, senza distrazioni da chiacchiere di ufficio. Certamente viene a mancare la funzione sociale del ritrovarsi in un luogo di lavoro condiviso e poter risolvere eventuali problematiche in tempi rapidi attraverso un rapido confronto visivo, ma trovando la giusta via di mezzo si può ottenere degli ottimi risultati.
Molto dipende dalla propensione allo smart working dei singoli lavoratori, di conseguenza sarà bene valutare anche questi aspetti in un prossimo futuro.
Ritiene, per concludere, che la difficile esperienza del Coronavirus porterà a sdoganare definitivamente l’uso dello smart working anche in quelle aziende notoriamente restie?
Ci sono buone possibilità che questo accada. Il cambiamento e le difficoltà incontrate in questo periodo non possono di certo essere dimenticate, questo sarà sicuramente il combustibile che consentirà allo smart working di diventare non più una soluzione di emergenza, ma un’opportunità da sfruttare anche nel lungo periodo.